Memoria e comunità


 

Ogni anno, il due novembre, c’è l’usanza

Per i defunti andare al cimitero

Ognuno ll’adda fà chesta crianza

Ognuno adda tenè chistu penziero

 

 E io stu penziero, come dice Totò, o tengo, così come tutti quelli che hanno perso una persona cara.

Dopo essere stato nella capella dei miei genitori, inizio un cammino che mi porta a girare per tutto il camposanto e a indugiare davanti alle tante tombe che mi paiono tessere di un grande mosaico dove vedi scorrere il tempo passato con le sue passioni, con le sue debolezze, con la sua povertà, con la sua tracotanza, con la sua grandezza: il cimitero come  metafora della storia di un paese, come il luogo che racchiude la memoria biografica e collettiva di una comunità.

Le lapidi raccontano ciò che non ricordiamo più: nomi che ritornano, mestieri, fotografie sbiadite, famiglie intere, amori interrotti, destini improvvisi.

Allora la memoria smette di essere solo un ricordo privato, diventa racconto condiviso, diventa storia. Nel silenzio dei cimiteri le voci dei defunti si fanno chiare: nessuno ha più bisogno di fingere, per cui le esistenze si mostrano nude, sincere, senza maschere.

Parlano, raccontano, per chi vuole ascoltare, storia e storie che non conosci, narrano di sé e degli altri e ti accorgi della loro ansia, della loro urgenza di sapere se ancora sono presenti nelle coscienze dei vivi, o il tempo ha alzato un muro di polvere che, ormai, separa il passato dal presente.

 E, lì, tra il marmo e i cipressi, ci accorgiamo che la memoria non è mai solo ricordo, ma rivelazione, narrazione senza più paura.

E’ il miracolo della collina di Spoon River (1) dove, nella morte, sembra, che le persone recuperino una libertà che in vita spesso viene trattenuta: la libertà di dire la verità, su chi sono state, su ciò che hanno amato, su ciò che hanno perduto.

Ci ricordano che la nostra vita è parte di un racconto più grande e che non siamo soli, e che ogni esistenza ha un valore, anche quando sembra piccola o dimenticata.

Raccontano di invidia, odio, maldicenze, rivelano drammi, infelicità,   meschinità, segreti nascosti di cui sono stati circondati in vita, dell’impossibilità di vivere la propria vita per paura delle ritorsioni che avrebbero potuto subire e i rischi a cui avrebbero sottoposto la famiglia. La paura di esporsi, di parlare perché il potere è pronto a colpire

Esagerazioni? Assolutamente no! Il potere non vuole essere messo in discussione, altrimenti perderebbe l’aura sacrale di cui si circonda; nel suo delirio di onnipotenza riconosce solo sé stesso, perché nell’altro, in un processo di alienazione, vede altro da sé, non si riconosce nell’altro, per cui crea una linea di demarcazione, tra il sé e gli altri così da non confondersi con la massa informe!

 E, attraverso un gioco assurdo e paradossale, inizi ad aver timore e tremore di un potere, liberamente concesso, che ti si rivolge contro, salvo a non uniformarti, pur sapendo che, in tal modo. la comunità finisce con lo spegnersi se non ha più la forza di reagire agli abusi e soprusi di un potere che non ha limiti davanti a sé.

 Come si sono difesi i cittadini nel tempo? Come cercare di dire la verità senza incorrere nell’ira dei potenti? Ricorrendo ad una narrazione anonima: ricorsi, senza firma perché solo in forma anonima è possibile trovare il coraggio della libertà.

  Qualche tempo fa, ho esaminato dei documenti che confermano, caso mai ce ne fosse stato bisogno, come i cittadini sono liberi solo quando sono invisibili.

L’arte del ricorso all’autorità superiore è un classico che ho riscontrato anche nell’Ottocento, e si è perfezionato sempre di più nel tempo.

Da un ricorso del mese di settembre del 1906 inviato alla prefettura di Benevento:

I cittadini di questo nostro sventurato paese sono abbastanza sorpresi del fatto che cotesta Regia Prefettura non prende un energico provvedimento per mettere un riparo a tutti gli imbrogli che si stanno commettendo di questa amministrazione comunale dove non se ne capisce più nulla. Tra l’Amministrazione e l’Esattore s’è formato un tale caos che i poveri cittadini sono mandati da Erode a Pilato.   Qui vi è stato e vi è uno sperpero di danaro pubblico, e non si capisce dove va a finire, e quelli che devono essere pagati non sono pagati perché l’Amministrazione dice che è l’esattore e l’esattore dice che è l’amministrazione. Intanto piovono solo sequestri, solo cause, solo spese a carico del povero comune

Quest’altro risale al periodo borbonico

il Decurionato(2)composto di proprietari non badano ad altro che ai propri interessi, e niente curano quelli degli infelici supplicanti; ma non sanno però che hanno  il Padre loro in Avellino, ch’è appunto l’ E. V. che li difende; perciò si raccomandano alla di lei persona, onde ordinare al Sindaco e Decurionato di formare le terne(3) così non vi saranno nuovi reclami e i medesimi che pagano i gravosi pesi placidamente, li pagano con piacere perché vedono che i loro figli non restino nell’ignoranza come lo sono i supplicanti, e così la popolazione sarà contenta nel vedere che E. V.  ci fa questa giustizia e di medesimo alzano fervidi voti per la conservazione della di lei salute.

Estremamente importante ques'ultimo perché mette in risalto:

1) che i cittadini conoscevano bene di cosa erano capaci i loro ammministratori  

2) la consapevolezza della funzione centrale dell’istruzione  per i figli dei contadini

Conclusioni: il primo, in forma anonima, riuscì a smuovere il Prefetto che inviò un proprio Commissario per accertare lo stato delle cose;

il secondo fu firmato da sette cittadini che non ebbero mai la fortuna di vedere nominato il maestro nel loro Comune!

   Beniamino Iasiello

 

 

 

 

   



1)  Antologia di poesie scritta da Edgard Lee Master. Ogni poesia racconta, in forma di epitaffio, la vita dei residenti di Spoon River; l'autore si ispirò  a personaggi veramente esistiti, ma, per la maggior parte. morti. Fabrizio De Andrè trasse, dagli oltre 200 epitaffi, nove ritratti  che commpogono l'album del 1970 intitolato Non al danaro, non  all'amore nè  al cielo.

2)l'attualeConsiglio comunale

3)durante il periodo borbonico per nominare un maestro era necessario presentare una terna di nomi da cui il Decurionato, dopo che il Vicariato aveva dato il proprio placet, sceglieva chi nominare dei tre. La norma della terna era valida non solo per la scuola, ma per tutti gli aspetti della vita burocratica – amministrativa.

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